La chiamano la “sindrome della capanna”: le persone che hanno vissuto sotto stress, ma che hanno gestito bene il confinamento, con il tempo per loro stessi, i loro cari e i loro hobby e a cui il ritorno alla normalità genera molto più stress.

Ci sono alcune persone che hanno vissuto questo periodo in modo attivo, ritrovando piccoli piaceri, voglia di stare in famiglia e scoprendo hobby e passioni. Diciamo che hanno usato questo periodo invece di subirlo e che non vorrebbero uscire di casa ancora per un po’.

Si chiama “sindrome della capanna” e chi ne soffre, farà molta più fatica a tornare alla normalità, anzi gli genererà molto più stress, un po’ per paura e un po’ perché si è ormai adattato alle nuove abitudini.

Chi ha la sindrome della capanna vive adesso la casa come un rifugio, l’unico posto in cui si sente al sicuro, un po’ appartato e lontano dal mondo tra PC, serie Tv, famiglia, ricette di cucina e ritmi più umani.

 

 

Insomma il ritorno alla normalità non è da tutti gradito, in particolare per la pressione di dover nuovamente lanciarsi nel mondo e riprendere il solito tran tran. Le nostre case, in questo periodo, sono diventate un rifugio, ci hanno tenuto al sicuro dal coronavirus ma anche lontani dal mondo, la cui routine spesso ci stressa.

Come ha spiegato al El País, Timanfaya Hernández, del Collegio Ufficiale di Psicologi di Madrid:

“Stiamo percependo un numero maggiore di persone in difficoltà con l’idea di uscire di nuovo. Abbiamo stabilito un perimetro di sicurezza e ora dobbiamo abbandonarlo in un clima di incertezza”.

Come ha ricordato la psicologa spagnola:

“Viviamo nella società del fare: fare sempre cose, produrre sempre”

 

La quarantena ha permesso alle persone di avere maggiore tempo per se stesse, i loro cari e i loro hobby, ed è anche per questo che ora possono essere riluttanti a tornare alla frenetica vita precedente.

E poi c’è anche chi, mal volentieri, si è abituato alla nuova routine e a ritmi differenti da cui ora, ugualmente, ha paura di allontanarsi. L’isolamento è spiacevole ma i nostri meccanismi di sopravvivenza ci hanno permesso di contrastare quel sentimento e di adattarci al confinamento.

In questo caso si parla di “sindrome della capanna” (o del prigioniero, se preferite). Con questi termini si intende l’evitare il contatto con l’esterno dopo un lungo isolamento, come appunto quello sperimentato in occasione della diffusione del coronavirus.

In generale la sindrome della capanna o del prigioniero si palesa dopo una lunga degenza in ospedale. Si ha paura di perdere sicurezza e punti di riferimento.  Succede anche in alcune regioni degli Stati Uniti per il gelo, per cui gli abitanti entrano in una sorta di letargo e fanno fatica a uscirne in primavera.

E’ indubbio che dopo il Coronavirus la vita non sarà più la stessa, almeno per qualche anno e che sarà cambiata la percezione di tante cose.

La paura più grande è scoprire però i propri punti di riferimento cambiati.

 

Si ha paura di tornare alla propria scrivania attorno a cui forse è stata messa una parete di plexiglass.

I posti in ufficio saranno più distanziati, salire sull’autobus o in metro sarà uno shock,  sono tutti in mascherina e non sarà piacevole per nessuno.

A questo si somma il fatto che più stiamo in casa, meno voglia di uscire abbiamo.

 

“Conosciamo casi di persone che, dopo un ricovero in ospedale o essere stati in prigione, perdono la sicurezza e temono ciò che è fuori” ha spiegato la Hernández.

Come ha dichiarato a Vice Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta specializzata in gestione e superamento di eventi traumatici ed emotivamente stressanti:

“L’idea di sentirsi a disagio in una situazione che prima era percepita come la normalità può creare in noi un senso di inadeguatezza. Ci si domanda “Come mai prima riuscivo (a uscire) e adesso no?” La differenza sostanziale è che adesso la persona è stata sottoposta a un evento stressante che, nel bene o nel male, ha modificato il suo modo di comportarsi, di vedere le cose. Probabilmente è una modifica temporanea, ma bisogna prenderne atto. (…)la situazione che stiamo vivendo è talmente eccezionale e collettiva che il comprensibile timore, più o meno accentuato, di uscire di casa può essere una delle più comuni reazioni, anche da parte di quelle persone che potremmo definire ‘più equilibrate emotivamente’”.

Sempre la dottoressa Guaglio sottolinea poi che:

“Ci sono diversi fattori che a livello individuale, in questo specifico caso, entrano in gioco ed alimentano la voglia di rimanere tra le mura di casa. Innanzitutto, il rifiutarsi di vedere o accettare che i propri riferimenti siano mutati sensibilmente. Se esco mi rendo conto di com’è cambiato il mondo che conoscevo. Vedo la città deserta, i negozi chiusi, le persone che incontro sono munite di mascherina, guanti. La nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla. A questo, poi, si unisce un fattore molto più prosaico: a livello neurobiologico e fisico, meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire. A cui, ancora, si sommano le paure sulle probabilità di un contagio”.

 

 

Abbiamo atteso a lungo la possibilità di tornare ad una parvenza di normalità e quando questa si inizia ad intravedere c’è chi scappa. Non è qualcosa di particolarmente strano, in realtà, è del tutto normale. Dopo mesi di quarantena c’è chi vive l’ansia di riprendere i ritmi precedenti, la paura di uscire e, magari, c’è anche chi ha scoperto che la vita in casa non è poi tanto male come si pensava all’inizio.

 

è importante comunque è affrontare le proprie paure con  un professionista che fornirà gli strumenti utili per trasformarle in alleate e poter così superarle.

 

Fonti di riferimento: El País  / Vice 

 

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